coproduzione 2009
Teatro de los Andes ODISSEA
testo e regia: César Brie attori: Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises Palacio, Julián Ramacciotti, Viola Vento costumi: Giancarlo Gentilucci, Teatro de los Andes scenografia: Gonzalo Callejas musica: Pablo Brie direzione musicale: Lucas Achirico organizzazione: Giampaolo Nalli aiuto regia: Daniel Aguirre, Alice Guimaraes luci: César Brie una produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione e Fondazione Pontedera Teatro in collaborazione con: Armunia Festival Costa degli Etruschi Castiglioncello Fabbrica Europa
Per affrontare l'Odissea abbiamo seguito l'esempio di Penelope: intrecciato fili diversi. Uno dei fili è stato partire da noi. Quali sono i nostri naufragi, le nostre passioni, i nostri mostri? Cosa abbiamo abbandonato? Dove si nasconde la nostra Itaca? Diciamo IO, per dire NOI. Diciamo Noi per dire VOI. Non dobbiamo smarrire questa presenza intima che bussa alla porta e vuole diventare l'universo. Nel lavoro finale restano tracce del viaggio nell'intimità dei miei attori. Dietro Laerte, Penelope, Argos, Circe, Calipso aleggiano invisibili altre anime, dietro Itaca appaiono altri paesaggi: la miniera in cui è nato uno dei compagni, una famiglia smarrita e ritrovata...
Un secondo filo: Ulisse è anche un emigrante, un terzo della Bolivia vive fuori dal paese. Ulisse racconta ai Feaci l'odissea dei latinoamericani che cercano di entrare negli USA. Polifemo diventa il capo della banda che assalta i poveracci sul treno che dal sud del Messico li porta al nord: lo hanno battezzato La Bestia. La bestia prende il nome di Antifate e li divora. Cariddi sono le acque del golfo del Guatemala, dove in tanti finiscono affogati. Scilla è la frontiera nel deserto, sorvegliata dai cani da guardia. I Minuteman, che pattugliano armati il deserto, diventano i Lestrigoni, che fanno scempio degli ospiti in arrivo nella loro terra. La terra promessa diventa la terra dei Lotofagi. La sirena è il canto della nostalgia, il ricordo che paralizza e annienta. Il ritorno di Ulisse diventerà una deportazione. Ambigua: si parte da Itaca e a Itaca si torna scacciati e vinti. Le danze tradizionali boliviane ci forniranno i passi dell'esodo, della fuga, della speranza e della perdizione.
Il terzo filo sono state le tantissime opere d'arte che l'Odissea ha suscitato. Leggere e confrontare. La nostra Penelope oscilla tra la figura omerica e la Molly di Joyce. Ma sia che seguiamo la traccia della migrazione, i suggerimenti contemporanei, il viaggio interiore o le nostre particolari vicende, sempre e comunque torniamo a Omero, al suo canto immenso e meraviglioso.
Il quarto filo è la scenografia. Gonzalo Callejas, il nostro "ingegnere", sparisce per un mese dalla sala. Un giorno mi fanno entrare e sedere con gli occhi chiusi. "Puoi guardare". Davanti a me canne appese. Si aprono, si chiudono, ruotano, si spostano avanti e indietro. Creano strade, case, boschi, recinti, mura. Un marchingegno semplice che sembra complessissimo. Da quell'istante tutto il lavoro si compatta.
Mentre montiamo l'Odissea, la Bolivia si incendia e questo diventa il quinto filo da tessere. A Sucre vedo gli indigeni presi in ostaggio, picchiati e umiliati. Sentiamo sul collo il fiato del fascismo. Di questo passaggio della storia boliviana restano tracce nel nostro lavoro: la profezia di Tiresia diventa lo sguardo di un emigrante che torna dopo vent'anni. La cacciata e umiliazione di Ulisse per mano dei pretendenti ha il tono e le parole delle aggressioni razziste. I pretendenti, figure che erano lontane dalla mia sensibilità, acquistano senso quando diventano un gruppo di maschi infoiati che violentano Penelope e le schiave.
Viene ad aiutarci per la musica, il sesto filo, un mio nipote Pablo Brie. Non l'ho visto crescere per via dell'esilio e lo ritrovo adulto, competente, sensibile. E' una restituzione. La sua presenza è anche parte del mio ritorno a Itaca. Compone, e insieme a Lucas Achirico, insegna a cantare ai nuovi attori.
Tra prove, scrittura e seminari, questo testo mi accompagna da tre anni. Noi non abbiamo né soldi né risorse, ma una ricchezza che spesso si smarrisce nella voragine del teatro contemporaneo. Abbiamo tempo. Lo sfruttiamo. Ci siamo dati il tempo necessario per approfondire la nostra ricerca. E' questo il filo che tiene insieme gli altri. E così, adesso che ho finito di scrivere e di montare, non so cosa farne del tempo ritrovato. Mi sento naufrago anch'io, abbandonato dai personaggi e dalle loro parole, che hanno ormai una vita autonoma. Cesar Brie
César Brie (Buenos Aires, 1954), attore teatrale e regista, è stato negli anni '70 tra i fondatori della Comuna Baires, una comunità di teatro indipendente che nasce rifiutando il teatro borghese e proponendo l'attore sopratutto in quanto uomo, con le sue certezze, i suoi dubbi, i suoi limiti e le sue potenzialità umane e creative. Nel '75, durante il suo esilio in Italia, fonda il Collettivo teatrale Tupac Amaru presso il Centro Sociale Isola di Milano. Nel 1980 incontra Iben Nagel Rasmussen, con cui fonda il gruppo Farfa confrontandosi con l'esperienza dell'Odin Teatret e di Eugenio Barba. Lasciata l'Europa all'inizio degli anni '90 contribuisce alla nascita in Bolivia, con Naira Gonzales e Giampaolo Lalli, del Teatro de Los Andes: insieme alla comunità Yotala, in un piccolo paese vicino a Sucre, crea una struttura che produce spettacoli di ricerca. Il gruppo, oltre a produrre spettacoli in Europa, lavora a una ricerca della memoria andina, ricollegandosi ai miti del luogo.
Teatro de los Andes Fondato nell'agosto del 1991 a Yotala (Bolivia), dove vive una comunità quechua, il Teatro de los Andes è un teatro-fattoria, in cui vengono realizzati e presentati spettacoli, e dove vengono organizzati incontri e laboratori. Attraverso un allenamento quotidiano, fisico e vocale, e forme di improvvisazione e composizione, il lavoro del Teatro de los Andes si propone di formare un attore-poeta, nel senso etimologico del termine: un attore 'facitore' e 'creatore'. Nei lavori del gruppo si uniscono così riflessioni sull'arte dell'attore, sullo spazio scenico e sulla necessità di raccontare storie, di ricordare, di "tornare al sé". Un teatro che può essere definito dell'umore e della memoria. Un teatro fatto da professionisti, nel significato originario di coloro che professano le proprie motivazioni e "le confessano in pubblico", a un pubblico nuovo, fuori dai teatri, nelle università, nelle piazze, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle comunità. Un teatro che vuole costruire un ponte tra una tecnica teatrale che può essere definita occidentale, e le radici culturali andine che si esprimono attraverso la musica, le feste e i rituali, nel segno dell'incontro e del dialogo.
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